Oggi lascio con piacere spazio a Laura Buscemi, docente di lettere e di scrittura creativa.

Era ieri. Ma ieri di qualche anno fa. Nell’aula, tra un battito di ciglia annoiato e una finta aria interessata degli alunni, spiegavo i verbi deponenti latini. Un leggero doppio colpo alla porta, un “Avanti!” e Andrea, un mio ex-alunno, sulla soglia.

gratitudineNon entra, è visibilmente agitato, mi incalza: “Le posso parlare, prof? Ma subito…”. Usciamo nel corridoio vuoto e freddo. Capisco che non sa da dove cominciare, perché sposta il peso da un piede all’altro e mi guarda come se non mi vedesse più o mi vedesse troppo. Poi srotola parole in fretta: “Si ricorda quel giorno che in classe non ho scritto una riga del compito? Da solo, all’ultimo banco…(e come faccio a ricordare? ne ho tanti di alunni così, ogni anno…) Lei mi è venuta vicino, mi ha fatto una carezza sulla testa e mi ha detto una cosa. Se lo ricorda, prof, quello che mi ha detto?”. Lo guardo senza rispondere e scuoto la testa. Sarebbe bello dire sì, ma non sono abituata a mentire e lui lo sa. D’improvviso sorride:” Non fa niente… Me lo ricordo io. Me lo sono ricordato stamattina, poco fa, e ho capito che lei aveva ragione. PROF, LEI AVEVA RAGIONE!”.

Lo so che l’emissione della voce non distingue tra maiuscole e minuscole, ma a me pare proprio che quest’ultima frase veleggi nell’aria scritta a lettere grandi. Andrea ripete, quasi stupìto: “Prof, lei aveva proprio ragione! Dovevo dirglielo subito, ecco perché l’ho disturbata in classe! Ci ho messo due anni a capirlo, ma son venuto a dirle grazie. Grazie di avermi visto davvero!”.

Prima che io possa aggiungere qualcosa, mi abbraccia forte e scappa via, con l’intempestiva tempestività degli adolescenti.

Qualche volta ho rivisto Andrea per i corridoi della scuola ma non abbiamo mai più fatto cenno a quest’episodio; poi non l’ho visto più, perché ha lasciato gli studi e mi hanno riferito (sì…credo…si dice…pare…) che ora ha aperto un chiosco su una imprecisata spiaggia tropicale.

Ecco. Andrea, il suo grazie ha potuto dirmelo. Io non ho saputo cogliere il momento di dire il mio a lui. Ora dovrei scriverlo su un foglietto, chiuderlo in una bottiglia ben tappata e sperare che il mare sappia recapitare il mio messaggio su quelle sabbie lontane.

E’ oggi.
La correzione dei compiti di Italiano della classe prima mi porta via un’infinità di tempo.
La C e la Q litigano: “…l’amico col cuale vengo a scuola…”
Congiuntivo e condizionale prendono servizio alternandosi: “…se sarei figlio unico…”
La S seguita da consonante crede di essere all’estero e si comporta come nella sillabazione francese: “… era DIS-PE-RA-TO…; …una signora DIS-TIN-TA…”

L’apostrofo predilige il maschile e certi plurali e ignora il femminile: “…un’uomo… gl’ultimi… un altra volta…”, impuntandosi testardo su “qual’ è” anche se lo cancello con vigore.
E poi il linguaggio informale e disordinato della quotidianità che irrompe felicemente: “…mio fratello è  incasinato… a me della scuola non me ne po’ frega’ de meno… se i miei genitori non mi fanno uscire con gli amici, lì scatta la rissa…” Non ci posso credere! Al primo anno del liceo scientifico!

Poi il tema di Ambra: comincia e finisce con tre puntini di sospensione, non fa uso di nessuna maiuscola e di alcun segno di punteggiatura, scivola da un argomento all’altro senza adeguati legami sintattici né logici, si conclude rimanendo sospeso: PERFETTO!

Un perfetto esempio di “flusso di coscienza”, quello esasperato, quello che giusto James Joyce ha usato in modo credibile.

Provo gioia, una chiara e soddisfatta gioia, perché quella tecnica di scrittura che ho spiegato come mero contenuto didattico è diventata per Ambra un possesso cognitivo ed emotivo, si è magicamente trasformata da “sapere” in “saper fare” e soprattutto è nata da una scelta espressiva libera e non imposta dal docente.
Sul retro del foglio protocollo, sotto la data ed il nome dell’alunna, la mia penna rossa disegna un convinto, tondeggiante 9. Glielo consegnerò domani.

Sarà domani.
Sarà domani il giorno in cui, riportando i compiti ai ragazzi, non mi farò sfuggire la possibilità di esprimere a parole chiare quel che c’è dietro quel voto e di dire grazie ad Ambra.

Grazie di aver reso davvero suo quel che prima non sapeva e che io le ho prospettato. Grazie di aver dimostrato che a scuola, nel banco, magari solo qualche mattina, non c’è solo la sua scorza esteriore visibile ma la linfa interna e vivificatrice della mente in ascolto.

Domani il mio grazie sarà esplicito e pubblico. Non aspetterò di chiudere (troppo tardi) messaggi in bottiglia, perché vorrei che lei (e magari anche qualcun altro!) capisse che un insegnante che spiega, interroga, corregge, vàluta, compila registri, fa solo il suo mestiere. Magari anche molto bene. Ma nel farlo si inaridisce, si svuota, se dietro la propria operatività personale non scorge lampi di curiosità e di viaggio personale dell’alunno, ben oltre i risultati scolastici. Un lampo anche raro, anche piccolo, ma vivido nel cielo oscuro di una Scuola oggi travagliata da troppe domande senza risposta.

Vorrei che Ambra, dal mio grazie, capisse che un insegnante, vedendo che i suoi alunni sono in aula ma nulla imparano davvero, è come un faro spento: torre fredda e non abbattibile, ritta sugli scogli viscidi, investita dai marosi e dalle intemperie, ormai incapace di indicare la rotta.

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